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n. 135 dell'11 novembre 2009

Data: 12/11/2009

Verso la Conferenza di Copenhagen

Il 6 novembre a Barcellona si è conclusa la fase finale dei negoziati di preparazione alla Conferenza sul clima di Copenhagen, in programma dal 7 al 18 dicembre. Non è retorica dire che è in gioco la sopravvivenza di moltissime specie e dello stesso equilibrio del nostro sempre più fragile ecosistema. La comunità scientifica è praticamente unanime nel ritenere che un aumento della temperatura superiore ai 2 gradi nei prossimi anni potrebbe avere conseguenze catastrofiche per l'uomo e le altre specie viventi, quali innalzamento dei mari, siccità, fenomeni climatici estremi. Secondo il rapporto dell'economista Stern agire subito avrebbe un costo molto più ragionevole che aspettare l'inizio delle catastrofi: meno dell'1% del PIL mondiale a fronte di cifre che vanno dal 5% al 20%.

Dal 2007 l'UE ha portato avanti un pacchetto integrato di misure su energia e clima che prevedono la realizzazione, entro il 2020, di ambiziosi target: il taglio del 20% di emissioni di gas serra, il consumo di almeno il 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili, l'utilizzo del 10% di biocarburanti e il risparmio del 20% di energia legato a maggiore efficienza e minori consumi. Attraverso laboriosi e difficili compromessi e mediazioni Commissione, Parlamento e Consiglio europei sono riusciti ad approvare già nella prima metà del 2009 misure normative e politiche per attuare quella che può essere considerata la base per una vera e propria rivoluzione industriale del XXI sec. di cui l'UE vuole avere la leadership. Green economy significa, infatti, anche ottime prospettive per l'export europeo, rafforzamento della nostra competitività e creazione di nuovi posti di lavoro. Ossia, il modo migliore per far uscire dalla crisi un'Europa rafforzata e con più peso anche rispetto alle nuove economie emergenti. E anche per limitare la nostra crescente dipendenza energetica. Questa leadership europea si riflette anche sul ruolo che l'UE può svolgere ai negoziati di Copenaghen ed evitare che emerga un rischio di emarginazione del nostro continente dalle grandi partite della governance globale e il consolidarsi del cosiddetto G2 tra Cina ed USA.

Sul clima l'Europa ha politiche e strumenti forti e convincenti e può assumere, a buon diritto, un ruolo centrale tra i grandi player. Su questa base l'UE sta premendo per un trattato globale, ambizioso e giuridicamente vincolante quale strumento per frenare il surriscaldamento. Per raggiungere questi obiettivi i paesi industrializzati devono ridurre le loro emissioni di gas serra del 25-40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020, mentre i paesi in via di sviluppo devono limitare le loro emissioni in rapida crescita a circa il 15-30%. In caso di accordo globale, ossia qualora anche gli altri paesi si dimostrino disposti a fare la loro parte, l'Europa è disponibile ad ulteriori tagli delle emissioni (fino al 30% entro il 2020). E anche a mettere mano al portafoglio per aiutare emergenti e paesi in via di sviluppo negli sforzi per limitare il surriscaldamento e adattarsi ai cambiamenti climatici. L'UE ha stimato a 100 miliardi di euro l'anno la cifra necessaria di cui circa 1/6 può venire dall'Europa. Questi soldi devono servire anche a facilitare i trasferimenti di green technologies dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo ed emergenti. Molti analisti sostengono che arrivare ad un accordo preciso già a Copenaghen è molto difficile. Gli USA hanno radicalmente cambiato politica e sembrano molto più sensibili al tema surriscaldamento.

Tuttavia la nuova proposta di legge che dovrebbe limitare le emissioni e promuovere le rinnovabili non è ancora passata al Senato. E anche se passasse contiene ancora dei target molto modesti: - 4% di emissioni rispetto al 1990. Con queste posizione da parte del primo responsabile di emissioni insieme alla Cina, difficilmente i paesi emergenti quali India e Brasile, e i paesi n via di sviluppo prenderanno impegni accontentandosi degli sforzi notevoli a cui si sono già impegnati sia l'UE che il Giappone (- 25% rispetto al 1990). Ma un fallimento di Copenaghen non vuole necessariamente dire il fallimento della lotta al surriscaldamento. E' molto probabile che con un po' più di tempo, già nei mesi successivi, si riesca a definire un accordo globale concreto. Dopo tutto è in gioco la salute dell'unica casa che abbiamo, il pianeta Terra.

Carlo Corazza
Direttore della Rappresentanza a Milano


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