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Trasparenza è raccontare anche quello che non va

Data: 05/06/2015

Migliaia di progetti di cooperazione vengono realizzati in tutto il mondo ogni anno e centinaia di milioni di euro vengono mobilitati a tal fine. Eppure, nonostante i tanti successi raggiunti dalle organizzazioni, ci si interroga sempre più sull’efficacia dei progetti e sul reale impatto che hanno nei paesi d’intervento. Talvolta i dubbi diventano così grandi e ingestibili da trasformarsi in enormi punti interrogativi, da qui inizia a nascere il germe della diffidenza. Lo strumento più efficace per abbattere gli spettri dell’indifferenza e della diffidenza è sicuramente la trasparenza. Essere trasparenti vuol dire dichiarare apertamente sia i successi che i fallimenti o quantomeno i problemi. A tutte le ONG sarà capitato un’esperienza progettuale negativa nella quale non si sono raggiunti gli obiettivi fissati, ma è stata raccontata ai donatori come le storie di successo?

Eppure anche queste sarebbero storie da raccontare,
per riuscire ad ottenere la fiducia dei propri donors e per poter lavorare insieme migliorando strategie e metodologie di realizzazione dei progetti.

Un esempio interessante è l’ammissione di colpe di David Damberger, membro dell’associazione canadese “Ingegneri Senza Frontiere”, che alcuni anni fa sul palco di un TED Talk aveva così esordito: “In base alla mia esperienza di cooperazione con Ingegneri Senza Frontiere, posso dirvi che il sistema degli aiuti è sbagliato. Non a causa delle dittature o della corruzione, ma a causa del nostro modo di portare aiuti ai Paesi in via di Sviluppo”. Ingegneri Senza Frontiere, infatti, aveva realizzato un’infrastruttura per portare l’acqua potabile in alcuni villaggi del Malawi.

All’inizio sembrava che l’infrastruttura funzionasse, ma quando i tecnici sono tornati sul posto per verificarne il funzionamento, si è scoperto che l’80% dei punti di erogazione non funzionavano perché si erano rotte alcune tubature. “Questo è normale, le tubature si rompono ovunque, ma ci siamo resi conto di non aver mai programmato la manutenzione e di non aver formato nessuno per questo compito” (David Damberger, “Learning from Failure”, TEDxYYC).

Secondo l’ingegnere canadese il problema risiede nel fatto che “le ONG si concentrano troppo sull’hardware e non sul software”, identificando come hardware prodotti tangibili come acquedotti, scuole, macchinari agricoli e come software le abilità tecniche, le competenze, la formazione della popolazione. “Questo approccio attira di più i donatori, che accettano di finanziare i progetti quando vengono proposti loro obiettivi concreti come la realizzazione di infrastrutture specifiche e non la generica diffusione di saperi o competenze in una comunità”.

Questa criticità ha radici nella distanza che esiste tra donors e beneficiari e nella scarsa analisi delle esigenze della popolazione beneficiaria. Nel sistema della cooperazione allo sviluppo, infatti, accade spesso che i beneficiari, ovvero i destinatari dei progetti, non siano ascoltati con attenzione e, quindi, si procede con progetti che non rispondono alle reali esigenze del contesto, ma piuttosto all’idea che le ONG o i donors si sono fatti della situazione. Da ciò nasce anche la mancanza di ownership, ovvero di sentire proprio il progetto da parte delle comunità locali, e di carenza partecipativa degli attori locali.

Oggi Ingegneri Senza Frontiere pubblica in Canada un rapporto annuale sui propri fallimenti e ha realizzato anche un sito internet. Forse questa è una strada che tutte le ONG potrebbero percorrere.

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