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Il dilemma dei donatori, dalla carità alla giustizia sociale

Data: 28/04/2014

Non si può negare che gli aiuti allo sviluppo siano stati e continueranno per qualche tempo a essere una fonte importante di finanziamento per porre fine alla povertà e per promuovere lo sviluppo economico. Ma il paradigma dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) così come lo conosciamo ha i giorni contati. Gli aiuti sono stati la manifestazione di un particolare contesto storico. Abbiamo costruito un ordine mondiale in cui ci sono livelli di disuguaglianza socio- economica inaccettabili e senza precedenti. Queste disparità estreme hanno portato alla creazione del nostro attuale sistema di aiuti pubblici allo sviluppo, in cui i paesi ricchi destinano una quantità relativamente piccola di risorse per alleviare le manifestazioni estreme della povertà in tutto il mondo. Abbiamo sviluppato linee guida, regole, norme e sistemi per regolamentare ciò che può essere considerato aiuto, il tutto per ragioni molto sensate.

Le ragioni per cui è improbabile che l’aiuto possa sopravvivere molto a lungo nella sua forma attuale sono ben chiare, le principali sono cinque:
In primo luogo
, le misure “input –based” hanno un valore limitato. Quando David Cameron ha promesso di affrontare i problemi causati dalle inondazioni nel Regno Unito nel febbraio 2013, ha detto “non è una questione di soldi” aiutare le persone colpite da eventi meteorologici estremi; non ha detto “ci proponiamo di mettere da parte 0,x % del PIL per attività che speriamo possano aiutare gli alluvionati”. In quasi tutti gli altri settori della politica pubblica, stiamo assistendo all’emergere di metodi di valutazione basati sui risultati e non c’è ragione di pensare che non sia così anche per la valutazione dell’aiuto.
In secondo luogo, il “noi e loro” tipico dell’APS continuerà a essere sotto attacco da parte dell’opinione pubblica nel “mondo ricco”, soprattutto perché ci saranno nuove pressioni per ridurre la spesa diretta dei governi negli aiuti. Accetto che l’aiuto sia una piccola frazione della spesa pubblica, ma il quadro attuale è quasi a somma zero. L’emergere di nuovi schemi di match-funding può essere un’innovazione benvenuta, ma è anche il segnale di un cambiamento nell’idea che ci sia un impegno pubblico collettivo nell’APS.
In terzo luogo, vi è il declino ampiamente registrato dell’importanza degli aiuti a scapito di altri flussi che impattano sullo sviluppo, e (quarto) il fatto che ci sono paesi a medio reddito che sembrano sempre più riluttanti a partecipare al sistema dell’APS. La situazione attuale in cui la “lotta contro la povertà” si basa sull’APS e su una squadra specializzata di cooperanti sembra antiquato, se non addirittura neo -coloniale. Infine, anche tra i donatori consolidati, sembrano essere in crescita le frustrazioni per un sistema di APS eccessivamente restrittivo che li lega mani e piedi (forse giustamente) nella ripartizione delle spese. Ad esempio, lo sviluppo nel Corno d’Africa potrebbe essere meglio sostenuto attraverso investimenti in infrastrutture di sicurezza che però non sono finanziabili con l’APS, in più il nesso clima/sviluppo crea tutta una serie di nuove sfide su quello che dovrebbe essere contato o meno come aiuto.

Naturalmente, ci sono alcune domande a breve termine che dovranno essere affrontate nell’immediato futuro. C’è l’impellente necessità che gli aiuti diventino più trasparenti, adattabili e intelligenti. L’APS deve essere in grado di raggiungere i cittadini in stato di bisogno e rispondere alle loro esigenze, e non rispondere prima alle priorità dei donatori. Gli attori della società civile devono essere coinvolti in modo più significativo in tutto il ciclo di vita dell’aiuto, dalla progettazione al delivery fino al monitoraggio.

Guardando nel lungo periodo sono convinto che l’impegno da parte di alcuni paesi ricchi di destinare lo 0,7% del PIL per alleviare la povertà nelle zone più povere del mondo non sarà visto come il punto più alto di un impegno globale per la parità, ma come il punto più basso di un sistema disperato che cerca di mettere cerotti politici per sanare ferite strutturali.
Tuttavia, questa mia tesi non è una protesta reazionaria contro la necessità di un serio investimento pubblico per promuovere lo sviluppo sostenibile, ma piuttosto vuole sottolineare che abbiamo bisogno di una trasformazione radicale della natura degli aiuti e della cooperazione allo sviluppo per riflettere le realtà emergenti del XXI secolo. Il mio è un appello per dire che abbiamo assoluto bisogno di un nuovo sistema, con risorse aggiuntive, per combattere la povertà e la disuguaglianza. Entro il 2030, abbiamo bisogno di alcuni cambiamenti fondamentali nel modo in cui il settore dello sviluppo funziona se vogliamo avere un impatto significativo sulla povertà, la disuguaglianza e la sostenibilità.


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